Frankenstein
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con tutti quei marchingegni elettrici
e dal budget milionario.

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Ma quando Mary Shelley
scrisse il romanzo

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all'inizio del XIX secolo,
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la sua descrizione era molto diversa.
Basta leggere anche un solo paragrafo

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per accorgersi che molto
è lasciato all'immaginazione.

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"Ln una cupa notte di novembre
osservai il frutto delle mie fatiche."

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"Ln preda a un'ansietà
al limite dell'angoscia,

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raccolsi gli strumenti di vita attorno a me
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per infondere un soffio vitale all'essere
inanimato che giaceva ai miei piedi."

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"Era ormai l'una di notte
e la pioggia picchiettava cupa sui vetri.

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La mia candela si era quasi consumata,
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quando al barlume della luce fioca
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vidi la creatura aprire
i suoi spenti occhi gialli."

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"L'essere respirò profondamente
e uno spasmo scosse le sue membra."

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E prosegue. Mary Shelley
rimase intenzionalmente vaga.

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Non sappiamo se si tratti di magia nera
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o di qualche strano elisir.
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Ma di certo non si parla di lampi e tuoni,
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impulsi elettrici e così via.
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Non c'è niente del genere.
Questa è una storia carica di significati.

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Possiamo parlare di Faust o dell'uomo
che cerca di superare se stesso,

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dell'uomo che cerca di emulare Dio.
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È una storia dai molteplici aspetti,
e questo spiega perché

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questo particolare concetto
abbia trasceso il tempo.

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Il romanzo era perfetto
per una trasposizione teatrale

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e i drammaturghi
se ne resero conto immediatamente.

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Così a pochi anni di distanza
dalla pubblicazione del libro

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apparvero le prime versioni teatrali.
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Nel 1823,
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Richard Peake presentò Presumption,
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in cui si parlava
del destino di Frankenstein

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in toni piuttosto melodrammatici.

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